ARTEMISIA LA SCELTA DEL NOME IN ONORE DI ARTEMISIA GENTILESCHI
(a cura di Valentina Di Stefano)
In tanti ci hanno chiesto come mai è stato scelto un nome tanto inconsueto per la protagonista del nostro fumetto BLACKSTEAM e con questo articolo proviamo a spiegarne le ragioni.
La nostra protagonista è una donna forte, inconsueta, indipendente, spregiudicata, imprevedibile e fiera, soprattutto per l’epoca e il paese in cui è ambientato il fumetto, la fine dell’Ottocento nella Roma papalina, ovvero in un momento ed un luogo storico in cui una donna “moderna” non avrebbe certo avuto vita facile.
Ci sono state donne così nel passato della storia italiana? Certamente si, due esempi per tutte: c’è stata ELENA LUCREZIA CORNARO (Venezia, 5 giugno 1646 – Padova, 26 luglio 1684) la prima donna al mondo che sia riuscita a laurearsi, anche se, nonostante fosse una vera erudita in tante materie, le fu concesso di laurearsi solo in Filosofia (presso l’Università di Padova nel 1678) e fu obbligata ad una vita monacale come oblata benedettina, perché una donna che studiava poteva essere dirompente per la società del XVII sec.
Altro esempio CATERINA DE’ MEDICI (Firenze, 13 aprile 1519 – Castello di Blois, 5 gennaio 1589) fu moglie di Enrico II° di Francia. Fu anche reggente al trono dal 1560 al 1563 ed ebbe una grande influenza nella vita politica di Francia. Francesco I°, suo suocero, fu colpito dall’intelligenza, dalla cultura, dalla modestia e dall’obbedienza, ma soprattutto dal sincero affetto che gli dimostrava, tanto che la ammise nella sua petite bande, la cerchia di favoriti che lo seguiva ovunque andasse. Fu proprio per seguire il suocero nelle sue battute di caccia che Caterina inventò la cavalcata all’amazzone, che permetteva alle donne di stare al passo degli uomini e di poter mostrare, in maniera discreta, la forma delle gambe. Alla corte dei Valois la ragazza continuò il suo apprendistato politico iniziato alla corte papale, osservando i comportamenti del re, le schermaglie tra cortigiani e gli scontri tra favorite di corte.
La Medici, inoltre, fu estremamente ammirata per la vasta cultura che possedeva. Conosceva, oltre all’italiano, il francese, il latino, e comprendeva molto bene il greco. La sua biblioteca personale giunse infine a contenere 2.118 libri su vari argomenti, dal campo umanistico a quello scientifico, dimostrando una vasta curiosità intellettuale: manoscritti rari, testi di storia, di matematica, teologia, filosofia, alchimia, astronomia, medicina, geografia, di musica, scienze e storia dell’arte.
Nella moderna storiografia viene considerata una delle maggiori sovrane di Francia, sostenitrice della tolleranza civile, che pur compiendo diversi errori di valutazione, tentò di seguire una politica di conciliazione con l’aiuto dei propri consiglieri, animata in primo luogo dal desiderio di assicurare la continuazione della dinastia Valois.
Nel nostro caso, vuoi per il fatto che era romana, anche lei vissuta in un’epoca nella quale erano il Papa e la religione a fare le regole sociali, vuoi per il fatto che non si è mai piegata alle suddette regole, anzi abbia deciso, con fierezza, di sfidarle, abbiamo ritenuto opportuno dare alla nostra eroina il nome di Artemisia proprio in suo onore.
Qui potete leggere una breve biografia di questa donna straordinaria.
ARTEMISIA GENTILESCHI (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli 1654) era sicuramente una donna che ha precorso i tempi, dalla vita sicuramente travagliata.

A 12 anni Artemisia provò il suo primo grande dolore: rimase orfana di madre. Questa tragica circostanza le consentì tuttavia di avvicinarsi molto al padre, Orazio Gentileschi, di origini toscane, pittore molto apprezzato a Roma. La giovane Artemisia, che doveva comunque occuparsi della gestione della casa e dei suoi fratelli più piccoli, era affascinata dal lavoro del padre, che ebbe il merito di accorgersi del talento della figlia. Tutto quello che imparò fu il frutto dell’insegnamento di Orazio stesso, entro le mura domestiche, perché a lei, giovane donna, non era consentito un percorso di apprendimento all’esterno, in quel mondo artistico popolato solo da uomini, talvolta poco raccomandabili, come il contemporaneo Caravaggio, che tanto influenzò la pittura di Gentileschi, e di conseguenza anche di Artemisia.
Essere confinata in casa però, non salvò Artemisia dalla tragedia che segnò la sua vita. Orazio ebbe il torto di fidarsi di un pittore con cui collaborava, Agostino Tassi. Nonostante fosse un personaggio dai burrascosi precedenti (era uno scialacquatore e fu mandante di diversi omicidi) e talmente prepotente da essere chiamato “lo smargiasso”, godeva però della fiducia di Gentileschi padre, con cui aveva collaborato alla realizzazione della loggetta del Casino delle Muse di Palazzo Rospigliosi. Orazio aveva una tale fiducia in Agostino che gli consentiva di frequentare assiduamente casa propria, e addirittura di dare lezioni di prospettiva ad Artemisia, essendo un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil .
Tassi tentò più volte di sedurre la ragazza, ricevendo sempre un fermo rifiuto. Fino al maggio del 1611, quando pensò bene di approfittare dell’assenza di Orazio per prendere con la forza ciò che Artemisia non era disposta a concedere. Grazie alla compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica e di una certa Tuzia, vicina di casa Gentileschi, che avrebbe dovuto vigilare su Artemisia mentre il padre era lontano, Tassi stuprò la ragazza, allora diciottenne.
Dopo aver violentato la ragazza Tassi arrivò persino a blandirla con la promessa di sposarla, così da rimediare al disonore. Bisogna ricordare che all’epoca vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto «matrimonio riparatore», contratto tra l’accusato e la persona offesa. Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, continuando a intrattenere rapporti intimi con lui, nella speranza di un matrimonio che mai arriverà. Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l’avesse informato sin da subito. Fu solo nel marzo del 1612, quando si scoprì che Tassi, che nel frattempo aveva anche una relazione con la sorella della moglie, cosa all’epoca considerata incestuosa, era già sposato e quindi impossibilitato al matrimonio, che Orazio Gentileschi indirizzò una querela a papa Paolo V per sporgere denuncia contro il Tassi, accusandolo di aver stuprato la figlia. La petizione recitava così:
«Una figliola dell’oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo oltre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento» |
Iniziò quindi un processo, durato sette mesi, che mise sotto accusa Artemisia stessa, ma la ragazza dimostrò una forza e un coraggio insospettabili. Il Tassi tentò di ribaltare le accuse, grazie anche a testimonianze compiacenti, accusando Artemisia di essere una donna promiscua e non più vergine. Il fatto che la denuncia fosse stata fatta tanti mesi dopo lo stupro non giovò alla credibilità di Orazio e di Artemisia, che ormai a Roma era considerata allo stesso livello di una prostituta.
Artemisia, secondo la prassi, fu obbligata numerose volte a visite ginecologiche lunghe e umilianti, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale: le sedute, in ogni caso, accertarono un’effettiva lacerazione dell’imene. Per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese le autorità giudiziarie disposero che Artemisia venisse sottoposta a testimoniare sotto tortura (era considerato un modo per accelerare il procedimento) durante un confronto diretto con il Tassi. La pittrice si sottopose alla tortura dei “sibilli”: i pollici erano legati con delle cordicelle che, grazie ad un legno, venivano strette sempre di più intorno alle falangi, fino anche a stritolare le dita. La conseguenza poteva essere la perdita completa dell’uso dei pollici, che avrebbe significato la rovina professionale di Artemisia. Mentre le guardie le legavano i pollici per la tortura, la coraggiosa Artemisia gridò al Tassi: “questo è l’anello che mi dai, e queste le promesse!”.
Questa la testimonianza di Artemisia al processo:
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatica per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò. Havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntandomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli levai anco un pezzo di carne”.
La ragazza sopportò ogni cosa, e alla fine ebbe una giustizia formale, ma non una vera vittoria: il Tassi fu condannato per lo “sverginamento”, con la possibilità di scegliere tra cinque anni di reclusione o l’esilio perpetuo da Roma. Ovviamente scelse l’esilio, ma in realtà non lasciò mai Roma, grazie alla protezione di alcuni suoi importanti clienti, mentre Artemisia veniva bollata come una “puttana bugiarda che va a letto con tutti”.
Fu invece Artemisia ad andarsene. Il giorno dopo la fine del processo sposò Pierantonio Stiattesi, pittore di poco talento, e si trasferì a Firenze. Anche se non fu certo un matrimonio d’amore, le nozze consentirono alla ragazza, e alla sua famiglia, di recuperare una certa onorabilità.
Nel corso degli anni Artemisia Gentileschi si spostò di nuovo a Roma, poi a Napoli e a Londra, e forse anche a Venezia e Genova, inseguendo sempre delle commesse che le consentissero di mantenere i suoi quattro figli e che fossero in grado di mantenere il dispendioso stile di vita del marito.
Per lungo tempo Artemisia Gentileschi fu ignorata dal mondo dell’arte, e poi considerata solo in relazione all’evento drammatico che aveva sconvolto la sua vita. Per questo il suo talento è stato messo spesso in secondo piano rispetto alla sue vicende biografiche, che poi l’hanno fatta considerare una specie di femminista ante-litteram. Ma Artemisia era una donna del suo tempo.
Lei era una pittora, anzi “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto e simili essenzialità…” (Roberto Longhi).
Per secoli, dunque, la pittora è stata poco conosciuta e, anzi, sembrava quasi condannata all’oblio, tanto da non essere menzionata neppure nei libri di storia dell’arte. Il culto di Artemisia Gentileschi si ravvivò solo nel 1916, anno in cui fu pubblicato l’articolo di Roberto Longhi denominato Gentileschi padre e figlia. La volontà del Longhi era quella di emancipare la pittrice dai pregiudizi sessisti che la opprimevano e di riportare all’attenzione della critica la sua statura artistica nell’ambito dei caravaggeschi della prima metà del XVII secolo. Longhi diede in tal senso un contributo fondamentale perché, spazzando via la nebbia dei preconcetti sorti attorno alla figura della pittrice, fu il primo a esaminare la Gentileschi non in quanto donna, bensì come artista, considerandola al pari di diversi suoi colleghi uomini, primo fra tutti il padre Orazio.

La critica più recente, a partire dalla ricostruzione dell’intero catalogo di Artemisia Gentileschi, concorda nel ritenere che il suo vissuto esistenziale, se da una parte è necessario per averne corretta fruizione dell’opera, dall’altra non consente assolutamente di averne una visione esaustiva. Ha altresì inteso dare una lettura meno riduttiva della carriera di Artemisia, collocandola nel contesto dei diversi ambienti artistici che la pittrice frequentò, e restituendo la figura di un’artista che lottò con determinazione, utilizzando le armi della propria personalità e delle proprie qualità artistiche contro i pregiudizi che si esprimevano nei confronti delle donne pittrici; riuscendo a inserirsi produttivamente nella cerchia dei pittori più reputati del suo tempo, affrontando una gamma di generi pittorici che dovette esser assai più ampia e variegata di quanto ci dicano oggi le tele a lei attribuite.

Numerose sono le pubblicazioni su Artemisia Gentileschi, sia sulla sua arte che sulla sua biografia, la pubblicazione più recente, presentata a Firenze il 12 maggio scorso, è un volume curato da Alessandro Grassi per il gruppo Menarini, in collaborazione con Pacini Editore.
Dalla sua vita straordinaria è stato tratto un film, nel 1997, intitolato PASSIONE ESTREMA, per la regia di Agnès Merlet, dove Artemisia è interpretata da una intensa Valentina Cervi, Michel Serrault è Orazio, Miki Manojlovic è Agostino Tassi e Luca Zingaretti è Cosimo Quorli.
Esiste anche un docufilm del 2011, intitolato THE TRIAL OF ARTEMISIA GENTILESCHI, nel quale Carolina Gentili ha la parte di Artemisia, prodotto e girato dal CDRC (Coro Drammatico Renato Condoleo) di Firenze, nel quale la narrazione è scrupolosamente fondata sui verbali del processo, tanto che si può dire che non esiste una sola frase pronunciata da Artemisia o dal Tassi nel film che non sia stata effettivamente pronunciata durante il processo. Il film ha avuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui l’inserimento nella sezione FilmArt del Dubai Film Festival e la bronze palm al Mexico International Film Festival.
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